Articoli per gennaio 2019

Kraken: An Anatomy

China Miéville, 2010

Alcuni giorni prima di Natale sono passato in libreria, perché i libri sono il miglior regalo, anche per me stesso. Non avevo un piano preciso, ma passando davanti allo scaffale Sci-fi / Fantasy, mi è tornato in mente un proposito: avendo apprezzato The City and The City, volevo leggere un altro libro di Miéville per farmi un'idea migliore di quello che ha prodotto in passato, e che in qualche modo ho ignorato per anni.

Sotto le feste, ahime, le librerie sono sotto attacco. Clienti vagavano in ogni stanza, c'erano buchi nelle esposizioni, e un altro libro che cercavo era finito. Di Miéville erano rimasti solo Scar, un volumone di circa mille pagine, e Kraken. Del primo avevo sentito parlare bene, ma so che è la seconda storia in un mondo particolare, ed avrei preferito leggere la prima... prima. Quello, e lo spessore, hanno diretto la mia mano verso l'altro libro, di cui non conoscevo neanche l'esistenza. Era nuovo? Vecchio? Di cosa parlava? Non si fanno queste domande ad un volume che ha in copertina una piovra gigante: si porta a casa.

Kraken è un libro di urban fantasy ben fatto: inventa un sacco di cose interessanti, le incastra dentro una Londra facile da immaginare, le lascia crescere, interagire, ed esplodere se necessario. Comincia piano, ma dopo un paio di capitoli devo ricordarmi di abbassare le sopracciglia, le sorprese non sembrano rallentare. Devo anche ricorrere al dizionario più spesso del previsto, ed imparo termini non troppo utili come twee.

Nella sua invenzione mi ricorda un misto di Gaiman e Pratchett. Ma se immagino questi autori affondare in una grossa poltrona in un salotto inglese, mi vedo Miéville che scrive seduto su una panchina un po' sporca, un paio di piccioni accanto, in un parco spoglio, con troppo cemento attorno, e magari un filo sospetto.

Il risultato è interessante, lo finisco con piacere e rapidità. Eppure dopo aver letto The City and The City è difficile esserne entusiasti, ed il giudizio rimane sospeso. Peccato, mi toccherà leggere un altro libro!

Io ed il telefono

Serpente e SIM card Al tempo, avevo anche messo assieme una foto in tema. Si, è fatto di blu-tack.

Circa dieci anni fa ho fatto un esperimento ed ho comprato un telefono cellulare. L'ho usato per un paio di mesi prima che finisse in un cassetto, ed infine lo rivendessi, infastidito dalla sua esistenza. Al tempo scrissi la bozza di un post, piena di opinioni importanti che tutti dovevano sapere. L'ho riletta più volte, ma l'ho sempre guardata di sbieco e lasciata in un angolo del disco.

Ho scritto un'altra bozza tre anni fa, di ritorno dal viaggio in Islanda. Allora la connessione continua aveva creato momenti di tensione, culminati con la lavatrice di Reykjavik. I vari pareri erano stati esposti, discussi, e digerititi. La bozza cercava di metterli assieme in una spiegazione sensata, ma non sono mai riuscito a completarla. Il senso era evaporato.

Qualche giorno fa il Venza ha condiviso un articolo su “l'ultimo uomo senza telefono”, un coetaneo e compatriota che fugge la costante reperibilità. Mi sono tornati in mente i vecchi scritti, che sono andato a rileggere. Ed ho cominciato una terza bozza, questa.

Come nell'articolo, l'apparire dei telefonini durante l'adolescenza li aveva inizialmente posizionati come uno strumento di reperibilità e controllo che i genitori avrebbero potuto usare per limitare la mia libertà. Quella sensazione non era durata molto in realtà, perché i miei non si preoccupavano troppo di dove fossi—eccetto quando rientravo in ritardo... di ore ed ore.

Contemporaneamente—siamo alla fine del secolo—in molte case era arrivata la connessione ad internet. Una delle prime magie era ICQ, e quella prima generazione di IM che non supportava i messaggi offline: potevi scrivere solo a chi era connesso in quel momento, persone che erano online proprio per scaricare la posta e chattare su ICQ, con me! Ed avevo anche scoperto che comunicare via email—dare struttura ai troppi pensieri strani che avevo, metterli in parole, e passarli in meno di un giorno ad altri—era uno dei miei passatempi preferiti. Eppure molti lo trovavano difficile: richiedeva tempo ed attenzione, ed era più facile il “ti mando un messaggino”. Più economico, in termini di sforzo, eppure così povero nei suoi cento-e-un-po' caratteri.

Ma così era iniziata la frattura. La reperibilità non sarebbe stata più un problema, ma internet e telefoni avrebbero portato avanti la frammentazione dell'attenzione. Oggi il cellulare costantemente connesso rappresenta per me lo strumento di interruzione finale: qualsiasi cosa, chiunque, in qualsiasi momento. E questo va contro uno dei miei valori fondamentali: essere presente qui, ora, con le persone che mi sono attorno.

Non avere un telefono è il modo in cui evito che l'altrove, che ritengo meno importante, disturbi quello che sto facendo. Non è una scuola di filosofia perfetta e ben definita, sia chiaro, ma è parte di una serie di accorgimenti che portano calma nella mia vita, come disabilitare la maggior parte delle notifiche, configurare il lettore RSS in modo che si aggiorni solo una volta alla settimana, o evitare di leggere le notizie del giorno.

Il “qui ed ora” magari suona strano, per un emigrato i cui amici e parenti, per la maggior parte, vivono in altri paesi e fusi orari. Ma queste persone meritano momenti dedicati: non parlo con loro solo quando non ho altro da fare, quando sono annoiato, o negli intermezzi. Metto invece da parte tempo per contattarli quando posso dare loro l'interezza della mia attenzione. E magari un poco scontrosamente, mi aspetto qualcosa di simile dagli altri. A volte le stelle non sono allineate, a volte si; ma se non c'è il bagliore di un telefono di mezzo, brillano di più.