Dalla seconda lettera di Fra al Proppo

Il sol levante, un po' rotto

Fatto: ci sono troppi pali sui marciapiedi.

La mail te l'avevo scritta per strada, sulla via del ritorno dal supermercato. Non è facile mantenere un passo sicuro e scrivere decentemente, e la correzione automatica non aiuta. Ho evitato un paio di angoli di palazzi, sceso scale con circospezione, mancato ultimi gradini goffamente.

Danila dice che scrivo “barocco”, temo per colpa degli avverbi, quindi li lesinerò nel prosieguo di questa mia. Altro che barocco.

Ti scrivo la seconda mail in casa invece, ed un po' della magia è persa. Uso le cuffie per staccarmi dal resto, ignorando la stanza come ignoravo il traffico per strada—mentre attraversavo. Il camambert che ho comprato senza un motivo preciso è al sicuro in frigo, senza preoccupazioni.

Non come il Giappone. Il giusto bombardamento mediatico ne ha inciso la coscienza in qualche angolino del cervello, anche se la gente che conosco sta da altre parti rispetto a quelle sommerse. I salvati, quindi. Ma non sapendo cosa fare, lo scorso fine settimana mentre guardavo la pioggia scendere, ho pensato al Giappone. E mi è venuto in mente di rileggere Love Hina. Tutti i 14 volumi, di fila, escludendo quelle misere sette ore di sonno e le giuste pause pisiologiche: pappa, pipì e popò.

La mia versione amorevolmente editata di Love Hina è andata persa anni fa. Non persa fisicamente, perché ce l'ha Furini, ma persa geograficamente, perché Furini è da qualche parte strana e irraggiungibile, forse in Canada. Uhm, di nuovo troppi avverbi, non ho speranza.

I generali Canadesi hanno divise troppo simili a quelle dei ranger dell'orso Yogi, maestro di vita screditato da un film che non voglio neanche immaginare. È difficile prenderli con serietà.

Potrei leggere il fumetto online su MangaReader1, ma leggere sul web è lento: aspettar di caricare le immagini, aggirare banner lampeggianti, cliccare piccoli pulsantini. In più mi aspettano ore e ore di lettura, a letto, sul divano, appoggiato al frigo. Ho bisogno di ogni singolo milliampère che la batteria possa fornirmi, ed il wireless mi è nemico in questo sforzo. Forse un Kindle avrebbe avuto abbastanza stamina, ma anche 5 pollici di meno e il refresh-rate di un ospizio.

Mi ritrovo quindi a scaricarne una versione meno pregiata via torrent, e la do in pasto a ComicRack2. ComicRack avrà anche qualche pezzetto scritto in .NET, compensato da qualche pezzetto scritto in Python, ma è il più completo lettore di fumetti che abbia usato. Zoom, frittelle, auto-scroll, supporto destra-a-sinistra.

Love Hina non comincia piano, nemmeno se hai letto il primo capitolo mille volte visto che mi hai regalato il primo numero. È li su una libreria, unico manga, unico fumetto in mezzo ad altri libri magari altrettanto nerd, ma in direzioni ortogonali. Al piano di sopra ci sono i cinque volumi della Intel sull'IA-32. L'autore ha avuto un momento di genio a quanto pare, ed uscito di stampa ha deciso di renderlo disponibile online3, in formato PDF. Beware of kanji.

Come la visita dei tre giorni nella canzone dei Bluvertigo, Love Hina è un po' fuori dal tempo. C'è solo una Playstation 2 definita “cutting-edge”, ma per il resto è invecchiato abbastanza bene. Leggere solo un capitolo di qualcosa tipo VideoGirl Ai adesso ti farebbe ridere, amarcord dei nastri magnetici.

È il 1999, e noi stiamo già cazzeggiando al Disi. C'è la fine del millennio, c'è il bug Y2K, i 747 regnano sovrani dei cieli. Non c'è ancora il 9/11, non ci sono zombie i tutte le salse—diventati di moda con il terrorismo?—il terremoto è lontano. C'è molta meno fica nell'aria di quanta ce ne sia adesso.

Il Giappone è molto più attaccato alle tradizioni, o le tradizioni sono più attaccate ai manga, e quindi non ti accorgi del decennio di divario. Petali, festival, harem. Onigiri e sumimasen. Quasi pilastri di una cultura auto-celebro-commemorativa, di cui spesso mi accorgo di non conoscere sufficienti dettagli.

Devo rimettermi a studiare la dannata lingua.

Rileggere Love Hina mi lascia sconvolto. Fisicamente, con il collo intontito ed il polso provato dalla dimenticanza che il mio portatile è pur sempre quasi due chili. Mentalmente, per aver vissuto in un altro mondo per due giorni, per gli immancabili ricordi, gli inevitabili paralleli, ed i riflessi di quello che avevo pensato e di quello che penso adesso. Tutto troppo lungo da raccontare, e forse troppo personale da non avere neanche senso una volta descritto.

Magari, anche una sottile sensazione di dolore perché l'adesso non è l'allora, perché non siedo più su una scomodissima panca di metallo fuori da un'aula a sparare vaccate a raffica. E son cazzi se una vaccata di striscio ti colpisce, hanno le corna anche le mucche, non solo i tori.

Il treno con Narusegawa a bordo fa tappa a Sendai, verso la fine della serie. Non posso fermarmi a ripensare alle immagini del vento che porta la coperta verso il mare, quando la signora sul tetto decide che aggrapparsi al soccorritore, a sua volta appeso all'elicottero, è più importante.

Al piccolo, al grande, alla nullità di mille pagine e disegni che raccontano una storia, di fronte alle forze della natura la ignorano passandoci sopra. Al messaggio del “gambatte”, perché puoi raggiungere i tuoi sogni lavorando duro, ed alla signora che lo pronuncia mentre si sporge insicura dalla porta di un'aula, per rincuorare un marito a cui ha dovuto dire “no, sumimasen, sua moglie non è qua.” 4

saluti, Fra