Liguria liminale

L’aereo era il primo sullo schermo della giornata, ma io avevo tutto un piano. Con buon anticipo avevo cominciato a spostare la sveglia sempre più presto, alzandomi prima del sorger del sole, andando a dormire con le proverbiali galline. Un foglietto di carta elencava tutti i pasti della settimana, in modo da svuotare il frigo con precisione, mentre un altro accumulava cose da fare prima di partire. La composta e le piante, documenti e backup. Nonostante la sveglia alle 02:45, sarebbe stato un viaggio rilassato e non stancante.

Faticare ad addormentarsi può ostacolare anche per il migliore dei piani. Farlo per due giorni di fila è una garanzia. Raggranello forse un’ora di sonno prima di dovermi alzare e mettere in movimento. Seguono nove ore di mascherine e sedili stretti e marciapiedi mobili. E di veglia. Sull’ultimo treno mi ritrovo a fissare un paragrafo per 20 minuti. Il libro è in mano per abitudine, ma non ho idea di cosa ci sia scritto.

Arrivo, scambio due parole con la famiglia, poi mi abbatto sul letto di faccia, in diagonale.

È tardo pomeriggio quando rinvengo, luci ed ombre sono ancora tutte strane, ma decido di uscire a prendere un po’ d’aria. E siccome il centro e la passeggiata sul mare sono rumorose ed affollate, almeno per i miei gusti, i piedi entrano in modalità automatica e mi portano in collina. Non ci vuole molto ad uscire dal paese, e raggiungere un duecento metri di quota. A metà fra il cammino ed il sonno, la Liguria è un mondo pieno di dettagli, che nella stanchezza assorbo senza difese.

La Liguria in cui mi addentro è ripida, esposta a sole e vento. Arrivo da posti dove l’erba non appassisce mai, ma su queste colline l’erba non arriva a fine estate. La Liguria è una serie di reti di confine storiche e stratificate, in vari stadi di arrugginimento. È un cortile di ghiaia, a cui nemmeno le erbacce sono interessate, a volte difeso da un semi-illeggibile cartello “Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori” che risale agli anni ‘80. La Liguria è additiva: si evolve aggiungendo cose in mezzo ad altre cose: garage nello stretto triangolo di un bivio, capanni incastrati fra case. Nulla viene mai tolto, ma si sgretola col passare degli anni, o delle decadi. La Liguria si arrangia: è un cartello scritto a pennarello che indica “Via Belvedere, numeri 85, 95, e 89”; è la fermata del minibus spoglia, a parte una seggiola di legno anni ‘70; è una pietra sopra alle caselle della posta di una viuzza, a tener ferme bollette dimenticate, ormai illeggibili e gonfiate dalla pioggia e dal sole. Il luogo valorizza personaggi strani, come l’anziano su una Micra del ‘98 che fa fischiare le gomme nel tornantino, su asfalto probabilmente rifatto nello stesso anno. Pavimentazione, pneumatici ed autista sono invecchiati assieme, dando uno forma all’altro nella comunione del ripetuto attrito. La Liguria è aspra: fichi d’india, more rinsecchite, mille ringhiere sulle finestre. Ma è varia! Nella stretta carreggiata evito, a minuti di distanza: la suddetta Micra; uno strano furgoncino con la targa da moto, adesivo della Red Bull a coprire l'intero cofano, seguito da una nuvola di mal-carburazione; un'enorme BMW famigliare, nera, lucida, fresca di Lombardia —”Scusi, di qua per l’autostrada?” Certo che si, qua tutte le strade portano all’autostrada. È l’inevitabile taglio a metà collina, un secondo orizzonte. È l’ultimo suono, insormontabile ostacolo al silenzio.

Raggiungo l’apogeo della stradina, ed un'altra collina. Comincia la discesa, il mondo si ripete simile, in ordine inverso, e rientro in paese. Quasi due anni e nulla è cambiato, e tutto è cambiato. Il cartello in più, l’albero in meno, il negozio chiuso. Divenire, e dormire poco.